piastrelle o staccia
giochi con oggetto
Staccia, barattolo e carburo
Carmine De Luca*
http://giovannipistoia.blogspot.it/2008/04/giochistaccia-barattolo-e-carburo.html
...Un altro gioco. Quello che chiamavamo della “staccia”. Qui cade a proposito un riferimento storico-linguistico. Il “Glossario latino italiano” di Piero Sella, nel volume dedicato a Stato della Chiesa, Veneto e Abruzzo, enumera sotto la voce “ludus” il nome di numerosissimi giochi ricavati dagli statuti di varie città. “Ad staczellas” cioè “gioco delle piastrelle” è ricavato dallo statuto di Teramo del 1440. La parentela morfologica tra staczella e staccia è evidente. Fine della citazione.
Per noi la staccia era un pezzo di mattone più o meno ben levigato per meglio afferrarlo e lanciarlo. Io trovavo straordinariamente adatta al gioco la staccia di mattone di argilla, sulle due facce ugualmente ruvida. Altri preferivano un pezzo di piastrella che per me aveva l’inconveniente di presentare una faccia ruvida e l’altra liscia. Al momento del lancio una parte ti scivolava dalla mano, l’altra esercitava maggiore resistenza. Ma era questione di gusti, anche.
Queste le regole del gioco. Ciascun giocatore dispone di una staccia da lancio; un altro pezzo di mattone fa da birillo. Lo si pone in verticale, ad una certa distanza, diciamo dieci metri circa. A turno si lancia. Bisogna colpire e far cadere il birillo.
L’analogia con le bocce è evidente. La staccia era le bocce dei bambini, trenta-quarant’anni fa (forse ancora oggi qualche ragazzino lo gioca) e nel medioevo.
Noi lo si integrava con la posta delle figurine o di monete fuori corso. Sulla staccia-birillo si collocavano delle figurine (quelle di Tarzan-Weissmuller; quelle dei giocatori del Torino: Bacigalupo, Ballarin, Maroso, Grezar, Rigamonti…; quelle degli attori hollywoodiani: sopra tutti il fascino erotico di Jane Russell). Si vincevano quelle che, colpito e abbattuto il birillo, si trovavano più vicine alla propria staccia.
Uno degli effetti dei continui colpi era quello di ridurre a brandelli le ormai irriconoscibili figurine. Quale fosse il limite della loro perdita di valore d’uso e di scambio era sempre oggetto di accese discussioni.
Se erano monete al posto di figurine, si montava sul birillo un mucchietto di soldini che facilmente si trovavano in casa, conservati dai tempi della riforma monetaria con il passaggio della monarchia alla Repubblica. In bilico stavano una sopra l’altra monetine diverse, di diverso valore –cinque o dieci i venti centesimi – ma tutte con il profilo e la pelata di Vittorio Emanuele III, re sciaboletta, com’era detto, e dall’altra parte l’immagine di un’aquila (un’aquila imperiale?) del tutto inadeguata all’Italia stracciona o l’immagine di una spiga un tantino più plausibile a dare idea della fame. Ma per noi ragazzini quelle monetine avevano comunque un che di prezioso. Simulavano una prosperità che era solo nei sogni.
Anche questo era un gioco.
*Nota. L’articolo “Staccia, barattolo e carburo” di Carmine De Luca è pubblicato sul quotidiano “l’Unità” e sulla rivista “il serratore”. Successivamente, insieme ad altri “pezzi” dedicati ai giochi, è raccolto nel volume “Alla ricerca dei giochi perduti”, il serratore, 1998. Il volumetto, che contiene una breve nota di Enzo Viteritti, direttore della rivista, è arricchito da disegni di Cosimo Budetta.
Il “pezzo” riproposto è tratto dal libro, così come i disegni.
Queste le regole del gioco. Ciascun giocatore dispone di una staccia da lancio; un altro pezzo di mattone fa da birillo. Lo si pone in verticale, ad una certa distanza, diciamo dieci metri circa. A turno si lancia. Bisogna colpire e far cadere il birillo.
L’analogia con le bocce è evidente. La staccia era le bocce dei bambini, trenta-quarant’anni fa (forse ancora oggi qualche ragazzino lo gioca) e nel medioevo.
Noi lo si integrava con la posta delle figurine o di monete fuori corso. Sulla staccia-birillo si collocavano delle figurine (quelle di Tarzan-Weissmuller; quelle dei giocatori del Torino: Bacigalupo, Ballarin, Maroso, Grezar, Rigamonti…; quelle degli attori hollywoodiani: sopra tutti il fascino erotico di Jane Russell). Si vincevano quelle che, colpito e abbattuto il birillo, si trovavano più vicine alla propria staccia.
Uno degli effetti dei continui colpi era quello di ridurre a brandelli le ormai irriconoscibili figurine. Quale fosse il limite della loro perdita di valore d’uso e di scambio era sempre oggetto di accese discussioni.
Se erano monete al posto di figurine, si montava sul birillo un mucchietto di soldini che facilmente si trovavano in casa, conservati dai tempi della riforma monetaria con il passaggio della monarchia alla Repubblica. In bilico stavano una sopra l’altra monetine diverse, di diverso valore –cinque o dieci i venti centesimi – ma tutte con il profilo e la pelata di Vittorio Emanuele III, re sciaboletta, com’era detto, e dall’altra parte l’immagine di un’aquila (un’aquila imperiale?) del tutto inadeguata all’Italia stracciona o l’immagine di una spiga un tantino più plausibile a dare idea della fame. Ma per noi ragazzini quelle monetine avevano comunque un che di prezioso. Simulavano una prosperità che era solo nei sogni.
Anche questo era un gioco.
*Nota. L’articolo “Staccia, barattolo e carburo” di Carmine De Luca è pubblicato sul quotidiano “l’Unità” e sulla rivista “il serratore”. Successivamente, insieme ad altri “pezzi” dedicati ai giochi, è raccolto nel volume “Alla ricerca dei giochi perduti”, il serratore, 1998. Il volumetto, che contiene una breve nota di Enzo Viteritti, direttore della rivista, è arricchito da disegni di Cosimo Budetta.
Il “pezzo” riproposto è tratto dal libro, così come i disegni.